UNA COESISTENZA IN CHIAROSCURO, CON AMPI MARGINI DI MIGLIORAMENTO.

Venticinque sconfitte consecutive nel torneo delle Sei Nazioni (a fine Febbraio 2020), una qualificazione ai quarti di finale mai raggiunta nella storia della Coppa del Mondo, la crescita del movimento che “sembrava” costante fino al 2013 salvo poi invertire clamorosamente la rotta, e una crisi ormai apparentemente senza via d’uscita.Eppure, nonostante i risultati poco gratificanti, l’Italia siede al tavolo del board della World Rugby (l’equivalente della FIFA per il calcio), detiene pari diritti nel prestigioso campionato celtico Pro 14 e vanta una media spettatori di circa 45mila spettatori per le gare casalinghe del 6 Nazioni, giocate allo Stadio Olimpico di Roma. Segno che, anche se la fiamma può sembrare spenta, i carboni sono ancora accesi e potrebbero far riprendere vigore al fuoco del rugby italiano in qualunque momento.

 

 

Servirebbe un soffio decisivo per far ripartire il meccanismo di sviluppo di questo sport e consacrarlo definitivamente nell’élite europea e mondiale, ma quale potrebbe essere?

Senza entrare nel merito delle questioni tecniche, che rimane tema molto ampio e che coinvolge la disciplina a vari livelli, può essere ugualmente decisivo un ragionamento specifico sulle infrastrutture, e sull’individuazione di uno stadio che rappresenti la “casa” del rugby italiano e diventi spinta per l’intero movimento sportivo. L’Olimpico di Roma, nonostante il fascino dei pienoni che riesce a garantire, manca di qualcosa di più, di un legame davvero intimo con questo sport. E, oltre a questo, altri aspetti negativi penalizzano lo stadio capitolino, soprattutto in relazione ai principali stadi europei della palla ovale.

 

SPAZI IN CONDIVISIONE E LIMITI STRUTTURALI

La presenza della pista di atletica (elemento di difficile gestione per molti stadi attuali), nel rugby come già nel calcio, implica una distanza molto ampia fra spettatori e atleti, che si traduce in un impatto ridotto del pubblico, e del sostegno alla squadra nell’arco degli 80 minuti. Nessuno degli altri stadi del circuito del 6 Nazioni presenta questo handicap. L’unico caso lontanamente assimilabile è Murrayfield, a Edimburgo, Scozia, con il rettilineo sotto la tribuna centrale, mentre lo Stade de France di Parigi ovvia a questo problema coprendo lo spazio della pista con tribune aggiuntive retrattili.

Se già la distanza dal campo è ragguardevole, l’Olimpico di Roma vede la presenza di barriere di separazione e del fossato a bordo tribune, misure negli anni necessarie in termini di sicurezza ma attualmente un’ulteriore limitazione che rende difficile la convivenza del rugby in un luogo ormai prettamente destinato al calcio.

 

 

A livello di tradizione del tifo, il rugby tende a creare un’atmosfera di condivisione molto più accentuata rispetto al calcio, e le barriere di separazione fra i settori (che impediscono a uno spettatore di spostarsi liberamente fra diverse zone dello stadio) riducono di molto il senso stesso di socializzazione proprio di questo sport.

Allo stesso tempo, anche il calcio subisce in parte la presenza del rugby. Il calendario ufficiale degli impegni di Roma e Lazio. inquiline principali dell’impianto, viene penalizzato e modificato in modo piuttosto evidente fra gennaio e marzo ogni anno e, ancor più importante, il terreno di gioco risente gravemente della disputa di partite di rugby a poca distanza dai successivi impegni calcistici. In generale, si sente evidente la mancanza di un senso di appartenenza che identifichi il luogo fisico dell’Olimpico con l’istituzione sportiva dell’ItalRugby, e questo rimane un aspetto ancora non risolto.

LE ALTRE NAZIONALI

Il paragone con le altre Nazionali europee è quasi insostenibile. Se lo stadio Twickenham, a Londra, con i suoi 82mila posti a sedere e di proprietà della RFU (Rugby Football Union), rimane probabilmente un’utopia in una metropoli altrettanto utopistica (dove sono presenti decine di stadi di proprietà), altri casi studio possono essere presi in considerazione su un piano più realistico.

Galles e Francia hanno una situazione simile fra loro, e si avvicinano al caso italiano nel concetto di base: entrambe utilizzano lo stadio nazionale, situato nelle rispettive capitali, e lo fanno in coabitazione con i pari-grado del calcio. Nessun club, però, gioca in questi impianti su base regolare (escludendo le eventuali finali di coppa). Tale gestione permette non solo di conservare il prato in condizioni sempre ottimali, ma di sviluppare nel pubblico un senso di attaccamento al luogo, che viene riconosciuto come prato di casa dello sport nazionale.

 

 

Anche in Irlanda la situazione è simile, con la Nazionale verde (nel rugby eccezionalmente unita fra Eire e Irlanda del Nord) che gioca all’Aviva Stadium di Dublino in condivisione con la selezione calcistica. Luogo storico dedicato ai due sport “inglesi” per eccellenza, l’Aviva (2010) è stato costruito sulle ceneri del mitico Lansdowne Road, considerato per decenni il Wembley d’Irlanda, a conferma di una pacifica convivenza fra le due Federazioni anche nel momento della decisione di rinnovare totalmente la struttura.

Un caso piuttosto interessante è, invece, quello dello stadio Murrayfield di Edimburgo, in Scozia, di proprietà della SRU (Scottish Rugby Union) che, con i suoi 67mila posti di capienza, ospita anche le partite casalinghe del club di rugby della città, l’Edinburg Rugby, una delle due squadre professionistiche della palla ovale dell’intera Nazione. La convivenza fra Nazionale e club in questo caso rimane sul piano dello stesso sport, facendo di Murrayfield il luogo del rugby scozzese a tutti gli effetti. Considerando che la Scozia del calcio gioca le sue partite a Glasgow (Hampden Park), l’altra grande città del Paese, l’esempio scozzese sembra un riferimento interessante per collocare due sport diversi in altrettante città.

LE IPOTESI ATTUALI

Nonostante i suoi limiti, e i dubbi organizzativi conseguenti, attualmente lo Stadio Olimpico rappresenta ancora l’unica sede credibile per una Nazionale che punta a rimanere nell’elite del rugby europeo e mondiale.

L’alternativa principale, ma al tempo stesso utopistica, è sempre stata la ristrutturazione dello Stadio Flaminio, situato sull’altra sponda del Tevere a pochi minuti a piedi dall’Olimpico, un impianto attualmente chiuso e ormai in stato di completo abbandono. Gioiello dell’architettura sportiva italiana, firmato dall’arch. Antonio Nervi, con la collaborazione del padre, Pier Luigi, ha una capienza di circa 30mila posti a sedere con le tribune addossate al campo di gioco e, soprattutto, ha ospitato le partite casalinghe dell’Italia per molti anni, fino al 2011. La sua immagine è legata ai ricordi più belli degli Azzurri, fin dalle imprese epiche che negli anni ‘90 portarono l’ItalRugby a essere inserita nell’elite europea.

L’idea di un ritorno al Flaminio è sicuramente molto affascinante, e sarebbe anche la più logica, vista la connotazione storicamente molto forte di un’identità rugbistica costruita nel tempo. Questo senza menzionare il valore stesso dell’edificio e la sua collocazione piuttosto comoda e accessibile all’interno della città di Roma.

 

 

La capienza del Flaminio, però, rimane un problema, in particolare rispetto agli standard del torneo 6 Nazioni, e sarebbe necessario un progetto di ampliamento che forse snaturerebbe l’attuale immagine dell’impianto. A tal proposito, gli eredi Nervi, che detengono la proprietà intellettuale e i diritti morali sull’opera, hanno espresso più volte il loro dissenso a un eventuale intervento così invasivo sulla struttura.

L’ ultima ipotesi è rappresentata da uno spostamento in un’altra città italiana. A più riprese, in passato, si è parlato di Milano, sia in coabitazione con Milan e Inter sia recentemente, nell’ambito del dibattito sul progetto del nuovo stadio milanese per il calcio e i conseguenti dubbi sul futuro di San Siro. Anche Firenze è stata più volte accostata alla Nazionale, e anche in questo caso di conseguenza all’idea che la Fiorentina potesse (possa?) lasciare l’Artemio Franchi per spostarsi in un nuovo stadio.

Tuttavia, le possibilità di un trasloco sembrano essere molto remote, soprattutto per il valore culturale intrinseco che il 6 Nazioni diffonde a livello europeo. Per gli appassionati del rugby, che non necessariamente sono sempre tifosi, programmare una trasferta per assistere a un incontro di questo torneo significa soprattutto intraprendere un viaggio turistico e culturale alla scoperta delle grandi città che compongono l’elenco delle sedi ospitanti: Londra, Dublino, Edimburgo, Cardiff, Parigi e… Roma, appunto.

Pertanto, a fronte della necessità di capire come si potrà migliorare il rapporto logistico dell’ItalRugby con lo Stadio Olimpico (considerando anche il possibile scenario futuro della Roma in un suo nuovo stadio, che di conseguenza alleggerirebbe il carico di impegni sull’attuale impianto del Foro Italico), Roma rimane la città maggiormente legata al rugby italiano ed è ancora la giusta carta da giocare, migliorandola, per il futuro di questo sport.